Artist: Fyrnask
Title: “Bluostar”
Label: Temple Of Torturous
Year: 2011
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Germania
Tracklist:
1. “At Fornu Fari”
2. “Evige Stier”
3. “Eit Fjell Av Jern”
4. “Ein Eld I Djupna”
5. “Die Firnen Tiefen”
6. “Bergar”
7. “Ins Fenn”
8. “Bluostar”
9. “O O O”
Le luci si eclissano sulle tenui cromie del crepuscolo e mentre ci si addentra via via in spazi dal plumbeo sentore oltremondano l’umidità si fa spessa fra basse e fitte fronde sempre più raccolte su loro stesse: un luogo fuori dal tempo e dallo spazio, una stasi totale e un ristagno dell’anima in cui inseguire in stato ipnagogico la visione di un solitario fuoco ardente e pulsante. Sono queste alcune delle immagini puramente soggettive ma dall’intensità travolgente con le quali si entra in sinergia ascoltando con abbandono il racconto di rinascita e trasmutazione tracciate dalle enigmatiche liturgie di “Bluostar”, primo cruciale full-length dei Fyrnask, sintesi essenziale e lancinante contenente i minimi termini di un linguaggio nel 2011 ancora in parte genuinamente acerbo nonostante una capacità espressiva già estremamente matura, ma che nella decade successiva s’innalzerà impalpabile come volute di fumo protese verso l’accecante bagliore del sole.
Nella sua ora appena scarsa di durata, il demo di nemmeno un anno prima intitolato “Fjǫrvar Ok Benjar” ha tutte le caratteristiche, qualitative e quantitative, di un lavoro dall’enorme potenziale inespresso ma dal quale emerge una natura intrinsecamente preparatoria: un assestamento in stile che si rivela un banco di prova che l’ancora tuttofare Fyrnd decide di abbandonare e rilasciare nel più breve tempo possibile una volta compreso che ispirazione, linee tematiche ed unicum concettuale ormai hanno, giunti al finire del 2010, preso il definitivo sopravvento e necessitano invece di un’uscita su massimo formato. Una dignità che nella concezione della sola mente dietro alle fila del progetto viene concessa da un approccio in cui oggetto rappresentato e soggetto rappresentante si fondono in un unico insieme, dove la narrazione e l’atmosfera vivono una in funzione dell’altra fin dal processo compositivo: fine coerenza complessiva, un equilibrio emozionale soppesato con eleganza e linee melodiche che si ripresentano mutevoli nel corso del platter sono gli esempi di una scrittura a fiume che ha come punto di riferimento una visione d’insieme illuminante, devota ad un quadro più ampio finemente oggetto di studio e meditazione, che non ne imbrigliano il carattere più istintivo, bensì lo convogliano asceticamente lungo la via.
In lidi in cui parlare del Nulla assume connotati quanto mai profondi e ambivalenti, può apparire ironico affermare il lemma del ex nihilo nihil fit; ma invero ascoltando il primo capitolo dei Fyrnask si può forse avere una preziosissima chiave interpretativa un istante prima che i flutti del destino e di un animo artistico in tumulto rendano vana qualsivoglia ricerca eziologica. Ciò che ad un orecchio attento è infatti impossibile che sfugga è che le partiture e gli esperimenti sonori di Fyrnd sono il parto di un individuo che in musica sta riversando gli aspetti più pregnanti della sua vita e le sfaccettate sfumature delle sue più grandi passioni, attingendo ora consciamente -ora meno- da una vastissima moltitudine di registri sonori, linguistici e mitologici in modo poliedrico e personale. Se infatti alcune scelte e un certo tipo di approccio possono essere ascrivibili alle pieghe che il Black Metal atmosferico assume proprio attorno al 2011, con suggestioni dall’indubbio gusto cascadiano a metà fra i Fauna di “The Hunt” e quei Wolves In The Throne Room che appena una settimana prima avevano rilasciato l’ultraterreno “Celestial Lineage”, e benché vi sia un chiaro intento sperimentale nella scelta e nello studio dello spettro delle frequenze mutuate dai Negură Bunget di “Om” su tutti (pensare ad episodi di un Dark Ambient rituale ed esoterico nella vena di “At Fornu Fari” o “Eit Fjell Av Jern”), “Bluostar” non si concede agli spazi dilatati e a cascata di impronta prettamente americana, suonando europeo nel profondo dell’anima (nonché peculiarmente norvegese nella voce à la Hoest, non solo nella lingua) e celando al suo interno alcuni connotati che lo proiettano invece ad una madrepatria che, per quanto calzi stretta alle ambizioni anacoretiche della band, lascia come preziosa eredità l’eleganza nera dei Lunar Aurora e le rumorose e pesanti tormente emotive dei The Ruins Of Beverast di “Rain Upon The Impure”.
In opere d’arte a tutto tondo quali i dischi dei Fyrnask sono e si presentano fin dai primordi del progetto, una semplice sbarra che come una lama d’ossidiana incide in due la tracklist sul retro del prezioso digipack marchiato ToT011 non è dettata dal caso, ma è il primo indizio, un invito ad affacciarsi con tracotanza sulla soglia del mondo delle idee, per seguire passaggi in cui folklore precristiano, credenze germaniche e fascino per l’arcano si intersecano a doppia trama con l’identità di un individuo spaccato a metà ed incamminato verso quello che nel determinato istante è il suo ultimo viaggio di ricerca. L’apparente dualismo manicheo del cacciatore e della sua preda prende il largo dai crescendo in tensione di “At Fornu Fari”, che fra rumorismi invocatori e una gestione atipica dello spazio del suono introduce “Evige Stier” nonché la prima parte del del disco, caratterizzata dall’utilizzo del bokmål norvegese e da un comparto corale che, per quanto sempre dimesso, si assesta su gravi toni abissali; le chitarre frontali tagliano linee scarne prediligendo fugacità ed eclettismo a compatte muraglie sonore e la distorsione contenuta dei cordofoni ai quali è affidata la linea melodica portante permette al brano di serpeggiare e di annettere in modo orchestrale dettagli, preziosismi e vocals della più variegata natura. Di contro, in un gioco degli opposti ben evidente nella successiva “Ein Eld I Djupna” e in grado di esaltare e tendere di gravità i silenzi, il minimalismo di natura classica à la Arvo Pärt viene alternativamente sovrastato da un gonfio e gravido suono elettrostatico: il cruciale mastering di Mell Dettmer (già a lavoro fra gli altri con Earth, Sunn O))) e con gli stessi Wolves In The Throne Room di “Celestian Lineage”) pone l’accento sulla naturale tendenza dei Fyrnask a fare propri gli strumenti del panorama Post- a tutto tondo, dalle sfumature Neurosis fino a strutture fra il Drone e il Black Metal che gli irlandesi Altar Of Plagues avevano sperimentato nel debut e sviluppato proprio pochi mesi prima con l’uscita “Mammal”. I loop ritualistici di “Die Firnen Tiefen” (non casualmente il primo ed unico passaggio esplicitamente intitolato col tedesco) non sono che il preludio alla seconda metà di full-length, dove, tramite una narrazione che procede adesso in lingua madre e pur senza evidenti scossoni stilistici, mantenendo dunque quella coerenza narrativa che è uno dei punti di maggiore forza di “Bluostar”, i rintocchi si fanno più cristallini, gli sprazzi corali si tingono dell’argenteo timbro femmineo in quella che sembra una predizione della agognata ed imminente fine rivelatoria: è in questo modo che “Bergar”, uno dei brani più violenti ed efferati della release, riesce a precedere l’assalto frontale della prima parte di “Ins Fenn”, grazie ad un tocco celestiale infuso dai sintetizzatori finalmente in primo piano e ad una ferma volontà di squarciare fissità e antinomie in cerca di un connubio divino tra figure antagoniste in perpetua lotta. Ma è con la grandiosa title-track “Bluostar” che il noumeno viene squarciato e messo a nudo, in cui il dualismo di aggressore e cacciato brilla della luce accecante di mille soli che si stagliano sui costoni della montagna più nera e si riflettono nelle torbide acque palustri: la traccia finale è il raggiungimento dell’apoteosi, lo sforzo finale antecedente solo il nulla (quella “O O O” che rimbomba della vuotezza del kenoma, una premonizione di sorta), il divenire torrenziale e fluido di un essere simbionte che trascende il doloroso regno degli opposti e che ottenuta vivida consapevolezza si abbandona al necessario sacrificio delle carni.
Riprendere in mano un’opera come “Bluostar” a pochi mesi dall’uscita di “Kenoma” rende spontaneo rinnovare il proprio stupore nel constatare quanto i Fyrnask siano riusciti ad alzare ancora di così tanto l’asticella qualitativa da ogni punto di vista, dalla potenza espressiva all’abilità di scrittura, quando al debutto la formula già sui generis racchiudeva una quantità di sfaccettature strabordante, una visione d’insieme d’eccezione e una classe in grado di distinguerli da tutto ciò che esiste in quel momento. Fyrnask è nel 2011 e sarà, almeno per i successivi dieci anni trascorsi da quel momento a quello della scrittura di questo articolo, un progetto composto da materia liquida in continuo divenire; un blocco di argilla mai solidificatosi, sostanza pura e vergine che solo un’unica mente dal talento fuori dal comune poteva mettere in atto con un violento e totalizzante spirito di volontà, così “oltre” nella sua continua imprevedibilità mischiata a coerenza e intelligenza artistica da scatenare un microcosmo ermetico dalle intersezioni sfuggenti e sfumate, mai dettate dal caso.
– Lorenzo “Kirves” Dotto –